Il codice del processo amministrativo e quella sgradevole sensazione
Posted on 22. gen, 2019 by L.P. in Argomenti, Diritto e giustizia

Il codice del processo amministrativo, all’art. 23, prevede che le parti possono stare in giudizio, tranne pochissime eccezioni, attraverso il ministero di un Avvocato.
Dalla lettura dell’art. 23 si evince che per parti si intendono i cittadini che adiscono il Tar, di certo non i loro difensori.
Nei principi generali del codice ammnistrativo, artt. 1, 2 e 3, viene evocato il Giudice amministrativo e le parti, non gli Avvocati.
Al c. 2 dell’art. 2 il legislatore indica il Giudice e le parti quali cooperanti per la “realizzazione” della “ragionevole durata del processo”; mentre all’art. 3 indica il Giudice e le parti quali protagonisti della redazione in maniera chiara e sintetica degli atti. Gli Avvocati non vengono nominati.
Vero è che l’Avvocato rappresenta la parte, ma è altrettanto vero che gli atti li redige lui, non la parte. Quindi le due norme citate si riferiscono agli Avvocati, evitando di nominarli.
La sensazione di trovarsi a essere solo ospiti del processo amministrativo lascia un acre gusto sul palato che è difficile rimuovere.
L’evidente difficoltà che tracima dal testo letterale delle norme, per il legislatore, di dare ufficiale ingresso all’Avvocato nel codice, rimanendo la sua figura quella del rappresentante della parte, quindi da evocare solo nell’art. 23 e non nei principi generali, mentre svela l’esatta identità degli autori, che non possono che essere Magistrati, confessa l’inguaribile insofferenza per la categoria degli Avvocati.
Questi pur rimanendo essenziali, per la vita di ogni processo, subiscono una subalternità ingiusta e irragionevole già nei testi, subalternità che si traduce, poi, in una quotidianità arida nella quale spicca ormai incontrastata la figura principe del Magistrato, tale da offuscare anche quella delle parti, uniche protagoniste sostanziali del processo.
E’ evidente che non si tratta di una svista, ma di un calcolato ragionamento che si traduce nella invisibilità della figura dell’Avvocato, pur nella sua sostanziale responsabilità di quanto gli impongono le due norme citate.
Le tre norme che contengono i principi generali del processo amministrativo, peraltro, rappresentano una realtà distorta. La ragionevole durata del processo, infatti e per esempio, non dipende dalle parti, ma esclusivamente dalla calendarizzazione della discussione dei processi che è appannaggio esclusivo del Magistrato; a meno che non si volesse sottolineare che ogni comportamento processuale dilatorio costituisca una violazione del principio. Ma è risaputo, a chi frequenta le aule di giustizia, che attività dilatoria non è consentita se non con il consenso del Tribunale, il quale può rifiutare una richiesta di rinvio, sempre per esempio, eventualità, comunque, tanto rara quanto eccezionale, anche perché la fissazione di una udienza viene sempre salutata con grande favore dalle parti.
Probabilmente il legislatore si è troppo magistraturizzato e questi evidenti lapsus, o sviste, o ragionati comportamenti tesi a escludere o ridurre o limitare la figura dell’Avvocato, non ne sono che il frutto.
Eppure è dal dialogo fra le opposte visioni del processo, quella del Magistrato e quella dell’Avvocato, che può nascere un processo davvero giusto, senza che la norma costituzionale titolata “giusto processo” appaia null’altro che una targa impolverata di nessun valore sostanziale.
Le clausole generali e la storia di un disservizio
Posted on 02. apr, 2018 by L.P. in Diritto e giustizia

Il giudice italiano non è vincolato dal precedente giudiziario. Cionondimeno presta particolare ascolto a quello che dice di volta in volta la Cassazione, facendone tesoro nella maggior parte dei casi.
Il codice di procedura civile tende sempre più a rendere inalterabile la decisione del Tribunale, avendo reso l’appello e il ricorso per Cassazione veri e propri giudizi impossibili, costosi e penalizzanti per chi li intraprende.
L’invito, subliminale e neanche tanto, è quello di dare il meno fastidio possibile, quindi di fidarsi della decisione del giudice di primo grado in maniera da sfoltire il lavoro dei sommi magistrati delle magistrature superiori e anche del grado di appello.
Le decisioni di primo grado, poi, vengono affidate in maniera sempre più massiccia a giudici onorari, la cui selezione costituisce un manuale vero e proprio della svendita nel commercio. E mi spiego: con uguali costi, uguale sostanziale inefficienza, uguale supponente presunzione, lo Stato italiano offre lo stesso scadente servizio, spendendo quattro soldi. Non solo, ma scrollandosi di dosso ogni pretesa di offrire un prodotto di qualità, dal momento che per fare il giudice onorario non si pretende neanche un dignitoso voto di laurea, o una certificata esperienza professionale, o il superamento di un test di quinta elementare.
Poi c’è la Cassazione che riesce a decidere bianco o nero, giallo o verde, libera di mortificare la certezza del diritto e garantendo che uguali situazioni vengano decise una volta in un senso e una volta in un altro.
Beati gli anglosassoni che, pragmatici quanto basta, sono vincolati dal precedente giudiziario che garantisce uguale trattamento per ogni singolo cristiano. Noi italiani, invece, siamo soggetti anche ai cambiamenti di umore o di pensiero del singolo magistrato. Nei prossimi mesi, per esempio, sarò impegnato in una causa di due dipendenti di una amministrazione pubblica che si sono visti negare un risarcimento dopo che un loro collega, nella medesima situazione, se lo era visto riconoscere. Il magistrato era lo stesso ed ebbe modo di dire in una epocale decisione che era ben conscio di avere deciso la stessa questione in una certa maniera, pochi mesi primi, ma “melius re perpensa” aveva cambiato idea.
Quando si dice la giustizia.
“E’ tutta colpa delle clausole generali del diritto”! Tuonò uno che aveva tanta esperienza. Quelle norme, cioè, il cui contenuto è tanto vago quanto modellabile alla bisogna; il tutto affidato alla interpretazione del singolo giudice, che declinato all’italiana porta, poi, a quegli scempi come quello appena raccontato.
Considerazioni, quelle suesposte, che portano gli operatori del diritto, come gli avvocati o gli studiosi, ove ancora portatori di un pensiero, a ritenere che il sistema giustizia italiano è teoricamente evoluto, ma sostanzialmente corrotto. Ma, si badi bene, non corrotto nel senso propriamente italico del termine, cioè di scambio di beni per un risultato ingiusto, cosa che purtroppo viene pure registrata, ma corruzione nel senso di “andato a male”, marcito, depravato, informe, se non proprio putrido.
Ma del resto basta la considerazione che una causa debba durare obbligatoriamente almeno dieci anni, per esempio davanti al Tribunale di Potenza, perchè se una causa non ha compiuto almeno, appunto, i dieci anni, non può essere decisa, per poter definire la giustizia italiana un disservizio grave e pagato a caro prezzo, non solo per i contributi allo stato in termini di marche, di spese di registrazione e soldi, questi sempre meno, agli avvocati, ma soprattutto per la aleatorietà delle decisioni, per la mancanza della certezza del diritto e dei suoi tempi, per l’immancabile teatrino che ogni udienza costituisce, col balletto dei rinvii e tanto altro, rinvii, beninteso, che molto raramente sono il frutto delle richieste degli avvocati.
Probabilmente la mia visione della giustizia è condizionata dalla versione “lucana” della stessa, ma mi rifiuto di credere che la Basilicata, anche in questo caso, sia un’isola, stavolta infelice, continuando a essere convinto che se da qualche parte la giustizia davvero funziona, si tratta di eccezioni che confermano l’andazzo.
Lo Stato è responsabile di tutto questo, ma non paga mai, perché si è inventata una legge, ignobile, che rende ardua anche la tutela risarcitoria per la lunghezza dei processi.
Eppure la nostra Costituzione parla della solidarietà politica, economica e sociale, offendendo le intelligenze di chi è costretto ancora a studiarla, senza poter preferire un bel Tex o Diabolik o Topolino che, sia chiaro, sono molto più seri della carta costituzionale, icona della più squallida e incoerente italianità.
Manifesto per una democrazia reale e una giustizia sociale
Posted on 27. dic, 2017 by L.P. in Argomenti, Diritto e giustizia, Politica nazionale, religione, Società e costume
Manifesto per una democrazia reale.
Parte Prima
Il Garante
In democrazia ci si è inventata la figura del Garante quale baluardo di specifici interessi, ritenuti preminenti e di attenzione superiore, di carattere diffuso e concernenti settori importanti della popolazione.
I cittadini, cioè, vengono considerati in gruppi, ognuno contenente specifiche caratteristiche. L’infanzia, i consumatori, i risparmiatori, i lavoratori, ecc. Molte di queste fasce di popolazione si è pensato abbiano dei diritti, spesso affidati, per la loro tutela, a una figura di garanzia che è appunto chiamata, spesso, garante.
A prescindere dalla effettività di queste figure nelle dinamiche sociali e giuridiche che sfiorano questi interessi particolari, spesso prive di poteri effettivamente incidenti nei processi decisori o sanzionatori, può essere utile riconsiderarne ruoli e poteri in termini di democrazia effettiva.
Le figure dei garanti andrebbero innanzitutto tipizzate, quindi la loro autonomia non dovrebbe essere solo dichiarata ma concretamente realizzata.
Tanto per cominciare andrebbe consolidato il filo diretto che lega il garante alla fascia di popolazione che deve tutelare, indi bisogna rendere questa tutela effettiva.
Ne consegue, innanzitutto, che la loro nomina non possa essere politica: dovendo rappresentare e tutelare gli interessi della popolazione nei confronti, anche, dell’attività propriamente amministrativo-governativa provvedimentale e di controllo, che rimane di appannaggio della politica, la loro nomina non può che discendere da libere elezioni circoscritte al territorio di competenza.
Il momento elettorale, inoltre, non dovrebbe vedere protagonisti i partiti per le medesime considerazioni che soddisfano l’esigenza di autonomia della figura del garante.
Conseguenza ovvia per chi scrive, meno per chi fa politica, è che un garante non possa fare politica, neanche dopo la scadenza del suo mandato e per un considerevole lasso di tempo, per evitare che l’esercizio della sua funzione possa essere determinato proprio da un obiettivo personale politico.
Il garante deve diventare, poi, interlocutore privilegiato, in ogni ambito che solo lambisca gli interessi tutelati, se non con poteri autentici di veto, quantomeno con poteri che condizionino l’attività amministrativa in termini significativi.
Corollario di tutto questo è che il garante costituisca figura di sicuro spessore e competenza., non garantita dal semplice favore di un diffuso consenso. E’ immaginabile realizzare una specifica scuola per garanti, anch’essa gestita con autonomia dalla politica, dalla quale sia possibile ottenere un titolo utile per la candidatura.
In tempi in cui la scienza, tutta considerata, è asservita al potere politico ma soprattutto economico e finanziario, però, contemporaneamente sarebbe il caso di garantirne la totale autonomia, anche della scienza, attraverso misure di salvaguardia che rendano effettiva la democrazia.
Sono misure minime di salvaguardia della democrazia, se proprio questo deve essere il sistema politico del futuro, da attuare immediatamente. Misure che dovranno tener conto di ogni momento decisivo della vita di un popolo, se non di più popoli, se è vero che un futuro non è prevedibile se non in una visione unitaria, e non solo di Europa.
Un governo del mondo presto sarà immaginato e realizzato concretamente, soprattutto con riferimento a quegli argomenti di comune interesse, quali l’ambiente, la salute e la giustizia.
Segue.
Ma quante ne pensano
Posted on 04. nov, 2017 by L.P. in Diritto e giustizia, Società e costume

2011, becco una multa per eccesso di velocità. Trovandola ingiusta, la oppongo.
Si svolge il giudizio e mi viene data ragione. Bene, mi dico ingenuamente.
Infatti nell’anno 2017 mi viene intimato il pagamento del doppio della multa, pena l’esecuzione forzata. Dopo sei anni ho faticato a ricostruire cosa fosse accaduto, ma pensa che ti ripensa, riaffiora il ricordo. Rispolvero il fascicolo e trovo la sentenza.
Ora la domanda è se ci sono o ci fanno. Insomma ci provano dolosamente o non è cosa loro? E poi, con quanti la fanno franca e passano per un ingiusto ulteriore incasso?
Perchè bisogna sempre temere che ci facciano fessi?
Ora dovrò fare una nuova opposizione e se chiedo i danni mi liquideranno due euro, se pure, in quanto per il giudice italiano non esiste un danno in re ipsa ma dovrei provare che quantomeno mi sono arrabbiato e mi è salita la pressione. Insomma due euro, appunto.
Alle fiamme!
I marchingegni di una giustizia ridicola
Posted on 03. nov, 2017 by L.P. in Diritto e giustizia

Fare l’avvocato non è mai stata attività semplice e possibile a chiunque.
Indiscutibilmente un rito facile, che metta al primo posto l’accertamento del merito, quindi del diritto sostanziale del quale si chiede tutela, consente al giudice di sopperire anche a eventuali “magagne” del difensore. E forse così era tanti anni fa.
Oggi, invece, i riti, sempre troppi, per la verità, sono diventati davvero complicati, sebbene la loro evoluzione abbia sempre trovato una logica nei fatti e una coerenza nelle intenzioni del legislatore.
Il processo è un autentico campo minato per esperti e il giudice, per lo più, sta lì a far scoppiare “le mine” sotto i piedi dell’avvocato e, quindi, sotto i piedi dell’utente.
Il difensore, pertanto, è chiamato a districarsi nel labirinto delle norme processuali più che in quelle del diritto sostanziale.
Se un tanto costituisca giustizia vera, è tutto da vedere, anzi è facile argomentare della sostanziale ingiustizia delle regole processuali che stroncano le liti sui diritti sul nascere,
ma, oggi come oggi, le cose stanno così ed è inutile discuterci sopra troppo.
Nell’auspicare, pertanto, una giustizia fondata su processi semplici, magari per il prossimo secolo, oggi conviene discutere sulla difficoltà di regole sempre più ostili e sempre più tese a deflazionare il contenzioso anziché a ripristinare secondo diritto quelle situazioni che danno inizio ai processi.
L’unica vera regola che potrebbe davvero deflazionare il contenzioso in maniera equa, senza cioè andare a pescare l’errore del difensore come attività specifica del giudice, sarebbe quella di processi veloci, o, meglio ancora, condotti in tempi “normali” e quindi non calcolabili in anni, ma in mesi.
Ma questa soluzione è l’unica rifiutata dai governi che si succedono i quali, invece, pensano che un processo potrà essere breve solo quando un giudice potrà averne da portare avanti solo pochissimi. Ma è invece accertato che i processi durano poco quando i tribunali funzionano, tant’è che ne esistono tanti capaci di risolvere le questioni in tempi rapidi, nonostante contenziosi enormi.
Tornano all’ordine del giorno i problemi sulla laboriosità dei giudici e sul loro numero. Sono davvero tutti laboriosi come richiede un sistema moderno e efficiente, o ancora, i giudici sono in numero sufficiente o sono pochi?
A queste domande non si usa rispondere e vai a capire poi perché. Si preferisce stabilire regole, per esempio, per le impugnazioni davvero ridicole, che prevedono principi stravaganti (penso al principio dell’autosufficienza del ricorso per Cassazione) col risultato di partorire solo impugnazioni lunghe quanto romanzi, quando una volta, con processi più veloci, le impugnazioni erano contenute in quattro fogli, e questo a beneficio di tutti.
Di certo c’è che la vita dell’avvocato è diventata impossibile, devono essere sempre più bravi e infallibili e devono costare poco, o addirittura niente se sol si pensa che non è prevista alcuna maniera per garantire loro il pagamento dei compensi prima che la causa termini.
Una proposta seria potrebbe essere quella di pretendere, prima della pubblicazione della sentenza, la dichiarazione dei difensori di essere stati pagati con l’allegazione della relativa fattura, riuscendo anche, in tal guisa, a garantire una minore evasione fiscale, pena la mancata pubblicazione della sentenza.
Ma figuriamoci se potrà mai essere un pensiero del legislatore il pagamento del compenso all’avvocato. Questo può morire di fame o, se è bravo, guadagnare quello che vuole semmai anche frodando il fisco. Invece l’avvocato è essenziale nella difesa dei diritti, deve essere bravo e non deve avere troppi legacci o problemi a guadagnarsi il pane, dando un servizio alla comunità fondamentale nei paesi civili. Questo se si vuole giustizia e non solo la sua controfigura, come invece, usa in Italia, dove vige la giustizia spettacolo da prima pagina che non è neanche la lontana parente di una vera giustizia.
Mafiopoli, editoriale del Roma Cronache Lucane
Posted on 11. ago, 2017 by L.P. in Attualità, Diritto e giustizia, Politica nazionale, Società e costume
Val la pena chiedersi se lo Stato italiano abbia ben in mente quanto sia diffusa, potente e tentacolare la delinquenza organizzata. Nel nostro paese, dalla cultura giuridica millenaria, esistono sacche di illegalità dalle dimensioni enormi. Pare ci siano territori letteralmente inaccessibili per le forze dell’Ordine, che, in questi casi, fanno la parte delle guardie giurate in un attacco alla banca da parte di un esercito di delinquenti, cioè, carne da macello.
I tanto decantati successi dello Stato, quando per esempio catturano uno che era latitante da vent’anni, sono fuochi d’artificio buoni per dare un segnale di esistenza, ma non sono pochi a ritenere che una cattura ogni tanto sia solo l’osso che la mafia offre in pasto ai tutori dell’ordine.
Gli enormi guadagni della malavita organizzata, poi, vengono investiti in attività lecite e spendibili con tanto di biglietto da visita e inaugurazione col politico di turno. I figli della malavita, infine, provano anche la strada dello studio, diventando professori, medici, avvocati e magistrati, oltre che imprenditori.
Lo Stato è accerchiato e incapace di combattere seramente la malavita, tanto che verrebbe da pensare che non lo voglia fare, preferendo trovare un’intesa.
La situazione è a dir poco allarmante sol si pensi a come il campo di azione della mafia non conosca più confini, essendosi esteso anche al nord e alle istituzioni. Nel parlamento più corrotto d’Europa, infatti, sarebbe da stupidi non pensare che qualche parlamentare, se non molti di loro, siano in odore di malavita.
Quando poi territori ancora poco malavitosi godono del presidio di quelle che vengono chiamate mafie bianche, dove cioè il sistema mafioso investe direttamente le istituzioni, che gestiscono l’unica ricchezza, costituita dal danaro pubblico, è più facile pensare a rapporti di affari che altro, per quanto attiene ai due tipi di mafie, quella vera e quella bianca. Perché il sostegno reciproco rimane alla base del successo di entrambe.
Io continuo a pensare che truccare un concorso per far vincere tizio anziché caio sia mafioso, poco cambiando se per imporsi invece della minaccia o dell’omicidio basti saper aprire le buste.
Ma le scene da far west, abituali nel napoletano o nel profondo sud, ora sono quotidiane anche nel foggiano e presto arriveranno ovunque, tenendo conto che, ove mancanti, significa solo che si è trovata una maniera per convivere, null’altro.
Il marciume è manifesto e arriva ovunque, temo anche nella magistratura, oltre che nel parlamento e nei salotti buoni.
Se non è materia, questa, per stabilire delle priorità irrinunciabili, priorità che vedano la lotta alle mafie quale primo scopo di un paese che, diversamente, deve rincorrere se stesso avvilendo la vita di chi rimane per bene, vuol dire che il marcio è arrivato ai vertici massimi.
Se lo ius soli o la legge elettorale, per fare due esempi, sono prioritari sulla lotta alle mafie, vuol dire che a decidere sono già le mafie, non vedo altre spiegazioni.
Traffico di droga immane, prostituzione, gioco d’azzardo, scommesse clandestine, appalti, corruzione, e, di fronte, forze dell’Ordine umiliate con stipendi da fame, autoveicoli vecchi e in numero sempre più ridotto, con paesi privi della stazione dei carabinieri, una volta presidio irrinunciabile per finire ai tribunali eliminati, sono lo specchio di un paese alla deriva, che gioca a essere civile, apparendo solo goffo, ignorante e truffaldino fin nelle sue viscere.
Nell’attesa della prossima sparatoria sentitamente ringraziamo.
Magistrati, carrierismo e politica, editoriale del Roma Cronache Lucane
Posted on 19. lug, 2017 by L.P. in Diritto e giustizia, Politica nazionale

Davigo ha un’opinione degli italiani e dei politici italiani ben delineata e non è buona.
Per certi versi come dargli torto anche se la teoria quando troppo generalizzata penalizza un numero di italiani davvero ingente, anche se forse poco influente.
Le sue teorie hanno sempre, però, dato l’idea che meno male che ci sono i magistrati, laddove il discrimine fra buoni e cattivi veniva dato proprio dalla linea di confine fra italiani comuni e italiani magistrati.
Da magistrato dedito alla toga e alla fatica, Davigo solo di recente ha rivestito ruoli di rappresentanza della magistratura importanti, uscendone però in malo modo, avendo infatti ritirato la sua componente dal direttivo dell’Associazione nazionale magistrati.
L’esperienza deve averlo toccato se è vero, come è vero, che ora i suoi strali sono diretti anche a quella parte della magistratura, leggi CSM, che, in presunta piena autonomia, governa la categoria in Italia.
Ha parlato, infatti, ufficialmente di carrierismo e, di conseguenza, di subalternità alla politica da parte del CSM che promuove a incarichi dirigenziali magistrati benvoluti dalla politica, senza che i procedimenti abbiano né trasparenza né obiettività.
L’esempio è presto fatto: magistrati chiamati a incarichi politici che, alla fine dell’incarico ricevono la direzione degli uffici più importanti.
Beninteso la chiamata della politica non è filtrata da concorsi o graduatorie particolari; no, la chiamata è diretta, cioè a fiducia personale del ministro o di chi per lui.
Evidentemente il successivo incarico dirigenziale puzzerà dalla testa, perché non il merito, ma le spalle coperte dalla politica avranno fatto la selezione.
Il risultato è devastante, semplicemente devastante. Al di là dello sconcerto dei magistrati che lavorano e dell’ingiustizia a loro danno, rimane una magistratura che si modula sulle necessità della politica. Addio indipendenza e autonomia.
Ora però mettiamoci dalla parte del cosiddetto utente della giustizia. Ebbene il quadro disegnato da Davigo, di una magistratura incline a prostrarsi davanti alla politica, indurrà nell’utente una sfiducia cosmica, con effetti destabilizzanti di non poco conto, ovvero indurrà l’utente alla copertura politica anche per una questione civile, semmai di regolamento di confini, per dire, ma immaginiamo quando l’oggetto del contendere cominci a essere di valore cosa può scatenare nell’animo dei contendenti.
Un grazie, quindi, a Davigo per aver mostrato all’Italia la deriva della magistratura. Deriva, però, che nel panorama di Davigo compare ora, ma che chi opera nel campo della giustizia intravede da anni. Del resto la politica non nasce ieri, gli incarichi ai magistrati si danno da decenni e fra i magistrati c’è sempre stata la corsa a chi riusciva a imboscarsi in un ministero anziché portare la croce quotidianamente.
Ovvio che chi si offre per un ruolo di spalla del politico di turno è presumibilmente portato a soddisfarne le tendenze politiche, ma un domani semmai potrebbe essere disponibile, in cambio di un bell’incarico dirigenziale, a soddisfare anche qualcos’altro.
Che la giustizia fosse malata lo sapevamo; ora abbiamo anche un certificato medico autentico proveniente da un luminare di legalità, e se l’Italia gli ha dato credito finora, non vedo come non potrà dargli credito anche in questa occasione.
Anche Davigo entrerà nella lista di quelli che denunciano e poi passano per pazzi. Fanno sempre così, è la loro arte, ghettizzare gli onesti col vizietto della denuncia seria. Chi fa così? Ma chi da secoli e secoli comanda, ovviamente.
La controriforma della giustizia, editoriale del Roma Cronache Lucane
Posted on 16. giu, 2017 by L.P. in Diritto e giustizia, Politica nazionale

Le riforme a botte di fiducia sono riforme per modo di dire, perché quando si evita il dibattito parlamentare, blindando una legge, oltre a sentenziare la fine del parlamentarismo, si celebra la morte della democrazia.
Ma tant’è, per quello che effettivamente interessa agli italiani, i quali solo quando scottati personalmente abbozzano un dissenso, val comunque la pena di soffermarsi sulla riforma del processo penale.
Tutto gira attorno alla prescrizione. E già l’impostazione è sbagliata, perché dovrebbe ruotare attorno a un processo più celere, che non preveda mille cambi di magistrati nel loro corso, con retrocessione dell’istruttoria dibattimentale ogni volta al suo inizio, e rinvii a un anno e passa e udienze cosiddette filtro. Fare della prescrizione il punto centrale di una riforma significa celebrare in anticipo la morte del processo.
La prescrizione, tradotta, significa stabilire un termine, congruo, entro il quale il processo deve terminare, per il principio di civiltà che una persona non può risultare accusata per una vita senza che lo Stato riesca a fare il suo dovere, cioè un processo.
Agendo sulla prescrizione, il legislatore avalla la possibilità di processi stremanti, costosissimi, lenti e solo per questo motivi ingiusti. Avalla atteggiamenti irresponsabili.
Di fatto la riforma prevede un aumento del termine utile alla dichiarazione di prescrizione pari a quello attualmente in vigore più ulteriori trentasei mesi, cioè altri tre anni. Allungamento che è sottoposto alla condizione, davvero balorda, che organismi come le Corti di Appello o la Corte di Cassazione, facciano il loro dovere entro un termine massimo di diciotto mesi. Altrimenti, si sarà scherzato. Faccio un esempio qualsiasi: sentenza di primo grado nel limite prescrizionale previsto di sette anni e mezzo per una certa tipologia di reati. Appello depositato l’ultimo giorno e Corte di Appello che riesce a concludere il suo giudizio entro i diciotto mesi. Ricorso per Cassazione, e giudizio che supera di un giorno i diciotto mesi utili. Bene tutto inutile, perché scatta la prescrizione originaria di sette anni e mezzo. Due processi inutilmente portati avanti; insomma una arlecchinata. Con presumibile responsabilità disciplinare, se non altro, per i magistrati che si sono visti scoppiare in mano la prescrizione.
Un compromesso davvero bislacco che pone nel ridicolo tutta la giustizia penale.
In ogni caso una persona potrà essere riconosciuta colpevole, nel caso di un reato dalla gravità diciamo media, in dieci anni e mezzo, quasi una vita o buona parte di essa, laddove, invece, non c’è bisogno di altro che di processi rapidi quantomeno per evitare che un delinquente possa passare per galantuomo, o un politico corrotto rovistare nelle casse pubbliche, fino a sentenza passata in cosa giudicata.
I magistrati pretenderebbero ancora di più, e cioè una prescrizione che si ferma alla sentenza di primo grado e non decorra oltre, col rischio di rimanere alla sbarra anche per quindici anni, parlando sempre di reati di media gravità, perché se alziamo il tiro, alla sbarra un imputato può restarci anche per oltre vent’anni. Una vera barbarie, necessaria solo per godere dello spettacolo di udienze penali che celebrano il nulla, fra un rinvio e l’altro, ovvero per indagini che durano una vita perché, semmai, gli si dà impulso solo dopo anni di gestazione da armadio.
Diagnosi finale: il legislatore italiano non ne azzecca più una, non è cosa sua. Terapia: urge sostituzione con persone qualificate che sappiano guardare un po’ più al di là della contingenza del momento, impresa invero ardua, specie se affidata ai partiti.
Una morte dignitosa, editoriale del Roma Cronache Lucane
Posted on 07. giu, 2017 by L.P. in Commenti, Diritto e giustizia
Non so quanti ne ha uccisi o fatti uccidere. Forse anche loro avevano diritto a una morte dignitosa che non gli fu concessa. Furono vittime della corsa al guadagno illecito, al potere economico, quello che non guarda in faccia nessuno.
In nome di quei morti, io, se fossi stato Riina, non avrei chiesto la grazia di morire nel letto di casa mia.
Ma la domanda è un’altra.
Morire dignitosamente se è un diritto, lo è a prescindere dallo stato di salute; se grave o gravissimo, o poco grave, cambia poco, si tratta sempre di morire. Allora uno Stato così sensibile ai diritti basilari di tutti, deve riconoscere a chiunque il diritto di morire a casa sua e non in un penitenziario.
Chissà quanti muoiono quotidianamente nelle carceri, semmai fra dolori fortissimi, perché malati e probabilmente non hanno un avvocato tanto bravo da convincere la Cassazione a una sentenza benigna. Questa è la vera ingiustizia che si celebra ogni giorno in Italia.
Poi potremo dividerci fra chi vuole Riina con le lenzuola bianche e rimboccate da qualcuno a casa sua e chi in un ospedale criminale, finirebbe come al solito allo scontro fra tifoserie, un discorso che non vale niente, se non per passare il tempo facendo pure finta di essere impegnati o avere una morale.
Le sentenze della Cassazione costituiscono il catalogo di tutto e il contrario di tutto. C’è, per esempio, la seconda sezione penale che da anni interpreta a fasi alterne un articolo del codice di procedura penale, senza provare vergogna; e dietro, decine di Tribunali a non sapere a quale interpretazione dare retta, incapaci di sbrigarsela da soli. Diceva un saggio a un giovane avvocato “Tu cerca che la sentenza che dice quello che ti serve alla fine la troverai”.
Diffidare della giustizia umana è umano, quindi non sarà la Cassazione con una sentenza a sancire un principio, né una legge, chè di leggi balorde ne esistono a iosa. Vanno rispettate le une come le altre, ma altra cosa è la loro sensatezza.
Proverei, quindi, a non parlarne più di tanto e oltre le considerazioni fatte proverei a prendere lo spunto per sperare in un legislatore e in giudici capaci di interpretare valori e disvalori non sull’emozione del momento, ma badando esclusivamente a quei principi morali che si ritengono non fuggevoli, ma incastonati in ognuno di noi.
Allora se deve esserci pietà per un malato condannato all’ergastolo, ci sia per tutti, automaticamente, senza bisogno di fare cause, che passerebbero per il filtro di un giudice benevolo oppure di un giudice rigido, perché queste sono le vere ingiustizie. Oppure se non si ritiene che si debba avere pietà, nonostante qualcuno ne provi, si evitino anche in questo caso questioni legali, e lo si decida a monte, del tipo chi sta in galera muore in galera.
Il filtro umano, anche se in toga, non mi convince più, se mai mi ha convinto.
Una società che sappia fare a meno dei giudici il più possibile è una società matura e civile. Noi italiani, facciamo decidere ai giudici anche cosa mangiare la sera. Sarebbe ora di finirla.
Ve la racconto io la giustizia, atto secondo. Una giornata in tribunale di qualche tempo fa.
Posted on 06. giu, 2017 by L.P. in Diritto e giustizia

Il mondo della giustizia è un mondo del quale, spesso a sproposito e anche dai cosiddetti addetti ai lavori, si parla da mane a sera. La crisi della giustizia, processi lenti, prescrizione breve, Berlusconi vittima (ma di che?), giustizialismo, no!, garantismo, pene certe, carceri piene, poche carceri, funiculì funiculà; ma niente può chiarire le idee meglio della conoscenza di come va un’udienza. Ne prendo una a caso, fresca fresca, quella di oggi. Il giudice non è un togato, ma un giudice onorario (dicasi onorario un giudice che fa il giudice senza aver superato un concorso, a quattro soldi, ma col cipiglio di un giudice vero e proprio). Al malcapitato onorario viene affidato un ruolo, e poi per l’occasione anche un altro –in sostituzione- per coprire una vacanza. Quindi il giudice terrà in uno stesso giorno due udienze; sembra efficienza, ma in effetti è solo una baraonda. Per un motivo noto solo al Grande Puffo, viene trattato prima il ruolo sopraggiunto. Di un tanto si viene resi edotti soltanto nella giornata dell’udienza, e sempre che tu stia presente dal primo minuto a sentire la breve introduzione del giudice onorario che in pochi secondi rappresenta come si procederà. Chi non si trova in quel preciso momento a sentire il giudice non capirà più un tubo della giornata. Insomma che si fotta, e trullallà. Beninteso, testimoni, avvocati, periti ecc. ecc., sono stati convocati per le nove e mezzo, che si tratti del ruolo ordinario o di quello aggiunto. La marea di persone a vario titolo interessate popolano l’aula di udienza fra uno sbadiglio e una passeggiata, mai troppo distante perché si potrebbe essere chiamati da un momento all’altro, e guai a non farsi trovare, perché, sia chiaro, la giustizia, quella contro di te, non ammette ritardi. Il ruolo aggiunto viene trattato con cipiglio e passione. Si arriva all’una ed è quasi esaurito, ma mancano i fascicoli del ruolo ordinario, e quindi scenetta nella scenetta, i cancellieri si litigano a voce alta su chi debba andare a prenderli. Viene quindi offerto, gratuitamente, uno spaccato di vita verace, a un pubblico attonito, sorpreso e vagamente confuso. Esaurita la contesa fra cancellieri, verso le ore 13:30 circa si può iniziare il ruolo ordinario, se non fosse che qualche avvocato si lamenta per il trattamento subito. Una delegazione di avvocati più o meno indignati si riversa del Presidente del Tribunale, e questi, lancia in resta, a capo di un codazzo di avvocati, in stile dott. Guido Tersilli (da “il medico della mutua” Alberto Sordi), si reca dal giudice onorario per aggiustare la situazione. Breve conciliabolo e tutto è a posto. Gli avvocati avranno giustizia, rispetto e la loro dignità è salva, chissà come, chissà quando, però. E si riprende l’udienza. L’ordine di trattazione dei processi non è chiaro: non è quello del ruolo (che pure sarebbe più o meno casuale), sembra quello del “chi ha fretta?”, senza certificazione dell’impegno che si rischia di perdere, oppure quello del “chi viene da fuori”, che è sempre un bel criterio, oppure quello del classico “qualcuno ha delle esigenze particolari da rappresentare?”; a questa domanda i più furbi, o disgraziati, a seconda, possono rappresentare una prostata difettosa, un imminente collasso, un infarto all’orizzonte, e sono accontentati. Semmai chi veramente è a rischio, per pudore tace, e sopporta. Poi c’è sempre l’avvocato che aspetta dalle nove e che appena esce per fare un bisognino si sente chiamare la causa, e deve tornare mentre si abbottona la patta, redarguito –accade, o se accade- perché non si è fatto trovare pronto all’appello. Poi l’udienza scivola fra un rinvio e un’eccezione, ma senza vita, senza pathos, senza niente di quello che serve alla giustizia. La strada della prescrizione è lì spianata davanti agli occhi e fa parimenti gola agli imputati e terrore alle parti offese. Forse alla fine verrà letta pure qualche sentenza, ma non è quello il punto. Questa giustizia fa letteralmente schifo. In udienza viene rappresentato un Muppet show quotidiano senza senso alcuno. Ovviamente il fatto più recente che viene giudicato ha almeno qualche anno sul groppone. Ma cionondimeno la giustizia mostra sempre il grugno e il cipiglio della severità, della sacralità (ho una toga!, dicono a turno giudici o avvocati) della tragicità. E invece è un teatrino neanche troppo divertente. Un rito vecchio, ansimante, polveroso, con interpreti stupidamente fieri di un ruolo che ormai è del tutto secondario nella vita di un paese, abituato a fare a meno della giustizia, ovvero ad accontentarsi di quella che provoca un arresto cautelare, semmai smentito, dopo qualche anno, da una sentenza assolutoria. Ma la colpa di chi è? Che domande. Del Fantasma Formaggino, perbacco.
PS: succede pure che qualcuno perda le staffe, durante queste cerimonie cerimoniose, ma tranquilli, passerà per pazzo. I saggi borbottano solo qualcosa, ma poi sorridono e si scusano per il disturbo.
Allarme giustizia civile a Potenza, 62 giorni non bastano per una ingiunzione.
Posted on 05. giu, 2017 by L.P. in Città di Potenza, Diritto e giustizia

Con il deposito telematico si sarebbe dovuta sveltire, anche la procedura per esempio dei decreti ingiuntivi, che, si sente favoleggiare, in altre realtà vengono rilasciati se non ad horas, quasi.
A Potenza non bastano 62 giorni contati a oggi, più tutti quelli che verranno.
Eppure si possono firmare dal computer.
Il sistema andava più veloce, a Potenza, quando si depositavano le carte materialmente.
Viva l’Italia, viva la Basilicata, viva la giustizia.
Ve la racconto io la giustizia
Posted on 05. giu, 2017 by L.P. in Città di Potenza, Commenti, Diritto e giustizia

Un signore, che oggi ha circa 76 anni, qualche tempo fa cominciò una causa civile presso il Tribunale di Potenza. Dopo le schermaglie procedurali di rito il Giudice decise che la causa poteva essere decisa e all’uopo fissò la data dell’1/3/2013.
Quando arrivò l’udienza, però, il giudice disse che non poteva deciderla, perché ce ne erano di più vecchie e la rinviò al 25/9/15, più di due anni, cioè, di rinvio.
Ma l’udienza non si tenne perché pervenne avviso, da parte del giudice, prima della fatidica data, di un nuovo rinvio, al 9/6/17, quindi un rinvio di più di due anni ancora.
Il signore, data l’età e condizioni fisiche non ottimali, presentò una istanza, corredata da certificato medico, chiedendo umilmente una anticipazione dell’udienza.
Il Giudice negò l’anticipazione mostrando una inflessibilità direi teutonica.
Ora che sta per arrivare il giorno della conclusione è arrivato l’avviso di un nuovo rinvio, non teutonico questo, al 17/10/2018, per gradire.
In definitiva, al 2018, se davvero verrà decisa la causa, saranno passati cinque anni e mezzo solo dell’udienza di precisazione delle conclusioni, le altre precedenti a parte.
A questo punto il lettore può esprimere un suo giudizio pari a
10 se ritiene la giustizia italiana molto seria
8 se la ritiene sufficientemente seria
6 se la ritiene scarsamente seria
4 se la ritiene una schifezza
2 se la ritiene meno di una schifezza
0 se si rifiuta finanche di commentare.
Sarebbe da sostenere la possibilità di celebrare le cause all’estero, tanto se i lavoratori possono circolare liberamente perché non anche le cause?
L’Orlando molto poco furioso. Editoriale del Roma Cronache Lucane
Posted on 04. apr, 2017 by L.P. in Argomenti, Diritto e giustizia, Politica nazionale

Il ministro Orlando si e’ candidato alla segreteria del PD dall’alto del suo rapporto di fiducia con l’ex premier Renzi. Renzi lo scelse per riformare definitivamente la giustizia, si’, quel trabiccolo che si barcamena fra una prescrizione e un arresto cautelare, con contorno di processi civili lunghi e costosi. Orlando e’ stato confermato da Gentiloni, chissa’ se per rispetto o sottomissione a Renzi, per mancanza di alternative, per pigrizia o per ponderata decisione.
Orlando ora si candida in alternativa a Renzi. Facile pensare che sia una strategia per polarizzare parte dell’opposizione all’ex premier e nulla piu’. Ma potrebbe anche darsi che il ministro e’ cresciuto e da signor quasi nessuno, passando per una riforma solo annunciata della giustizia, sia pervenuto alla convinzione di poter guidare il secondo partito italiano.
Il suo curriculum, beninteso privo di laurea, ma di questi tempi una laurea e’ scomoda, inutile (meglio andare a zappare si diceva una volta), ma soprattutto sempre al vaglio di malpensanti che sono sempre al lavoro come i becchini, prevede appunto un bel fallimento nella riforma della giustizia. Non gli sono bastati circa quattro anni per rivoluzionare, alla Renzi, il pianeta piu’ machiavellico della nazione. Le soluzioni fin qui maturate trovano il disappunto dei magistrati; il che potrebbe anche essere secondario, visto quali sono i criteri adottati dalla prestigiosa categoria. Il problema e’ che la riforma e’ ferraginosa e melmosa. Sembra, come troppo spesso capita ai nostri politici, guardare al presente e non ai prossimi venti anni, come una riforma necessariamente dovrebbe.
Le linee guida sono dettate dalla cronaca giudiziaria quotidiana o degli ultimi anni, dalle polemiche correnti. Nascono, quindi, con un requisito sbagliato, cioe’ quello di non darla vinta a qualcuno, sottrarre strumenti processuali oggi molto in voga, ovvero condizionare un potere dello Stato. Una riforma dovrebbe essere altro, guardare molto lontano, basarsi su principi giuridici fondanti, laddove esistenti, risolvere preventivamente questioni costituzionali, avere un obiettivo di efficienza, giustizia e massimo diritto di difesa. Presuppone una scelta metodologica basata su fondamenta giuridiche solide. Insomma ci devono lavorare prima giuristi, fior di giuristi, e poi i politici, e anche in questo caso dovrebbe trattarsi di fior di politici, non gli ex portaborse che, dopo una onorata carriera da autisti qualificati, oggi occupano le aule del parlamento, salve le poche eccezioni, ovvio.
A ogni modo, in queste occasioni si palesa il deficit democratico italiano. Al popolo e’ sottratta qualsiasi decisione, perche’ dovremmo avere i nostri rappresentanti che le prendono per noi. Costoro, in Parlamento, devono votare o meno una fiducia, coi ricatti che questa comporta e senza dibattito alcuno, quindi, con buona pace dei doveri di rappresentanza nei nostri confronti, la cosiddetta riforma compete a pochissime persone le cui qualita’ di riformatori vengono bocciate metodicamente dalla Corte Costituzionale o dal Consiglio di Stato. Insomma, poteva andarci meglio. Intanto la giustizia fa acqua da tutte le parti e il restauratore Orlando vola verso alte mete politiche che, stanti i risultati del suo lavoro, ha poche chances di raggiungere.
Vabbe’, andra’ meglio alla prossima tornata. Affidiamoci a Dio, o al caso, e non se ne parli piu’.
Dimissioni, facsimile a uso generale. Editoriale Roma Cronache Lucane
Posted on 27. mar, 2017 by L.P. in Amenità, Argomenti, Attualità, Città di Potenza, Diritto e giustizia, Politica nazionale, Regione Basilicata, Società e costume

“Cos’è un uomo senza la sua coscienza?
Ma può bastare la personale consapevolezza di aver agito sempre e soltanto per il bene comune e giammai per il proprio personale interesse o per quello di qualcuno che ci sta vicino, a farci tirare avanti?
La coscienza è la confidente cui non si può negare niente, capace, se non ammaestrata alla bisogna, di presentarci il conto salato delle nostre azioni, sebbene queste abbiano potuto viaggiare al di sotto dei radar dell’opinione pubblica.
Perché è proprio la nostra coscienza, nel restituirci un certificato di comportamento cristiano e altruista, a chiederci se lo stesso risultato provenga anche da chi ha diritto a pretendere il conto del nostro operato.
Diverso è l’agire privato, quello che si sostanzia all’interno del nostro personale tempio, mentre per l’agire pubblico, quello che scaturisce da un incarico che ci viene conferito alla luce della nostra specchiata onorabilità e credibilità, non conta quale arbitro solo la nostra coscienza, ma questo fa i conti con quello che si può pensare altrove, coi dubbi legittimi di tutti e con la necessità che alcuna ombra offuschi il nostro operato.
Ma quand’anche la generale indifferenza sottovaluti segnali all’apparenza portatori di sospetto, quantunque alcuna considerevole prova tanto avalli, cionondimeno è proprio la coscienza, quella che è sicura di noi, a consigliarci di dar più credito alla ipotetica altrui opinione, ovvero al possibile dubbio, chè basta questo per disonorare una funzione sacra perché pubblica, e, di conseguenza a imporci di lasciare il passo alla genuina limpidità, che, una mancanza di sospetti, immancabilmente tornerebbe a rasserenare la comunità.
E, torno a ripetere, a nulla varrebbe l’assuefazione dei cittadini a indagini e processi, perché il primo giudice, quello che non dà spazio ad appelli, è sempre lei, la nostra coscienza che, come un vigile severo e lucido, fa in modo che il traffico scorra serenamente negli affari della vita di un paese.
Senza la nostra coscienza saremmo poveri fra i poveri, esposti a ogni tipo di intemperie.
Non mi sfugge che la coscienza, talvolta ingiustamente, rimpicciolisce le nostre giuste ambizioni, ridicolizza i nostri meriti, si fa un baffo delle nostre virtù, ma non assecondarne i consigli ci ridurrebbe a non avere più la forza di avere di noi stessi quella gratificante opinione che solo il sacrificio delle ambizioni rende, se vogliamo, anche eroica e, nel lungo periodo, indimenticabile.
Ed è per tanto che, facendo violenza alle mie virtù, che mi onorerò, un giorno, di gratificare del vostro postumo riconoscimento, che mi vedo obbligato, non senza dolore, ma non senza orgoglio, a rassegnare le dimissioni dal prestigiosissimo incarico cui fui destinato dalla fiducia e stima che un paese intero, sebbene in maniera indiretta, mi aveva tributato.
Non lascerò un vuoto incolmabile, perché è mio principio di vita quello di pensare di non essere indispensabile, nella certezza che chi verrà dopo di me saprà svolgere l’incarico in maniera più degna e meritevole, forse anche a causa del mio passo indietro”.
- Queste ipotetiche dimissioni potrebbero essere firmate, oggi come oggi, da centinaia di persone, a vario titolo inquisite, indagate o solo sospettate. Farebbero un figurone. Talchè le metto a disposizione di chiunque voglia farle proprie. Non costano nulla se non una offerta libera che verrà destinata a quei disgraziati degli italiani.
Il ca…che ci frega del parlamento. Editoriale del 20 marzo 2017 del Roma Cronache Lucane
Posted on 20. mar, 2017 by L.P. in Amenità, Attualità, Città di Potenza, Diritto e giustizia, Politica nazionale, Regione Basilicata
La sua nascita e’ stata salutata con cori entusiastici e cortei festanti. Qualcuno ha trasceso, ma ci sta, quando l’avvenimento supera anche i piu’ benauguranti sogni. In piazza Bonaventura, infatti, qualcuno ha preso di mira i lampioni, fracassandoli col lancio di sassi, ma, ripeto, dai, ci sta.
Non accade spesso che nasca una formazione politica che, fin dal suo primo vagito, distribuisca speranze e sicurezze, programmi di sviluppo, posti di lavoro e qualita’ della vita. L’Europa, infatti, ci invidia. E noi rendiamo omaggio ad Alfano che, stravolgendo un ventennio di ipocrita messa in scena, ha, con le sue mani, dopo averlo fecondato, materialmente eseguito il parto di Alternativa Popolare. Un papa’ ostetrico, saturo di maieutica socratica, che apre le porte della felicita’ all’Italia.
Benvenuta, Alternativa Popolare, eravamo, purtroppo, scarsi.
Berlsuconi, invece, saluta il sistema proporzionale, capace, nonevero, da solo, di sgominare il M5S, potendo riunire un manipolo di perdenti contro la formazione piu’ votata dagli italiani, pare, o almeno questo temono tutti. Altro sistema non esiste, secondo una visione lungimirante che vuole il legislatore italiano capace di governare il qui e ora, confondendo zen e politica.
Ma il palcoscenico vero, quello piu’ importante, questo fine settimana ultimo venuto, e’ tutto del parlamento italiano che ha dichiarato di aver acquisito finalmente la sigla dei lavori parlamentari. E’ il noto successo di Fabio Rovazzi “il ca… che mi frega”.
Ebbene i nostri prodi sono riusciti nell’impresa, rimarchevole, di sdoppiarsi: sono una volta legislatori e una volta destinatari delle leggi che hanno fatto. Ma in ossequio alla nuova filosofia parlamentare, quando legiferano sono seri, sobri, leggiadri nel loro svolazzare oltre gli interessi particolari di tizio o di caio, quando, invece, sono i destinatari, si rimboccano le maniche dei loro completi grigi, mandano a palla Fabio Rovazzi e, scatenandosi in un frenetico ballo, testimoniano la loro beffarda autonomia da quello che hanno partorito quali legislatori.
Della legge Severino, in una parola e secondo quella che era la regola di un uomo tanto famoso fra i famosi, quanto sconosciuto fra i piu’, Vittorio Camardese, potentino capace di dare l’impressione di vergognarsi delle sue indiscusse e inarrivabili virtu’ professionali e artistiche, rendendole in questa maniera, semplicemente, divine, proprio perche’ non pubblicizzate e quindi di valore assoluto, e cioe’ la sintesi, che deve chiudere ogni discussione a riprova che quella discussione ha senso, ebbene il parlamento ha sancito che delle sue stesse leggi non gliene frega una beneamata cippa. Ha cosi’ riabilitato Minzolini da una sentenza passata in cosa giudicata, segno che della nostra giustizia non bisogna tener conto, perche’ e’ carta straccia. E se lo dicono loro, possiamo crederci.
C’e’ chi parla di comportamento eversivo. Balle. E’ solo la prova che l’Italia vive e prospera sul palcoscenico di Scherzi a parte, sempre, che non c’e’ piu’ vergogna al pari delle stagioni, che questa e’ la globalizzazione, che prima l’abbiamo voluta e ora ce la dobbiamo tenere.
Una domanda residua: ma a questo punto possiamo non pagare le tasse?
Piano, non siamo tutti parlamentari. C’e’ chi puo’ e chi no. Noi comuni mortali abbiamo il nostro bel privilegio, da tenere stretto, possiamo essere processati e finire in galera.
Beati i disgraziati, diamine, non costretti come i parlamentari a stare sempre in Paradiso.
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