Una vita in democrazia
Posted on 04. apr, 2022 by L.P. in Argomenti

Ho vissuto tutta la mia vita in democrazia, che, unanimemente viene riconosciuto se non come il migliore, sicuramente come il meno peggiore dei sistemi.
Ho avuto modo, quindi, di gustarne per decenni gli effetti.
Ecco, pare sia stata garantita la mia libertà. Che poi cosa esattamente significhi non lo so ancora, perché ho vissuto circondato da leggi, divieti, gabelle, raccomandazioni, corruzione, tasse e disfunzioni senza riuscire a prendere una boccata d’ossigeno, se non all’estero.
Sì, sono stato libero di borbottare, come faccio testè, ma mi convinco sempre di più che il consentirmi di borbottare sia una maniera per tenermi sotto controllo.
Libertà, pertanto, rimane un concetto davvero molto relativo e trovo che sia qualcosa di circoscritto più alle opinioni che al vero pensiero.
Ma, dicevo, nella mia vita da “democratico”, sebbene costretto a esserlo, ma in verità da solitario, ho potuto notare, ma non apprezzare, come con i cambi dei governi, la democrazia abbia soltanto consentito che mutassero i beneficiari del saccheggio.
Un saccheggio, per la verità, sotto gli occhi di tutti, diciamo finanche legalizzato.
Cambiava l’appartenenza politica del nuovo assunto, del vincitore del concorso, dell’incaricato, del direttore generale, del primario e via discorrendo, ma non cambiava il metodo, l’approccio bulimico, l’appetito infinito, la corsa all’arricchimento, personale e della famiglia, allargata, beninteso.
Una vita in democrazia mi ha fatto assistere anche al depotenziamento della funzione educativa, alla sempre minor esigenza di preparazione da parte della scuola e dell’università nei confronti del mondo studentesco; mi ha fatto notare come nella piramide burocratica della vita, le ambizioni di chicchessia al suo vertice fossero la conseguenza della sistematica esclusione dei migliori, come l’insignificanza delle singole individualità assurgesse addirittura a esempio.
Il grottesco impera, travestito, come a carnevale, con maschere che provano a trasfigurarlo, salvo rimanere sempre e soltanto grottesco. Ed è evidente come il grottesco sia visto come tale da un sempre minor numero di persone.
Democrazia ha significato, insomma, un abbassamento del livello minimo di decenza quotidiano.
La domanda quindi che mi pongo è: non funziona la democrazia, o non funziona quella specie particolare di democrazia che si pratica in Italia, dove le scalate trionfanti dei disonesti o solo degli ignoranti sono sempre possibili e giammai ostacolate?
Il mio sogno è vedermi governato da persone da ammirare, di vedermi educare da insegnanti di valore, di avere degli esempi, di potermi innamorare almeno di qualcuno che sia in carriera e non soltanto di qualche disgraziato, spesso proprio perché migliore.
La democrazia è la dittatura dei mediocri, se non proprio dei peggiori, almeno finora. Se e quando sarà capace di selezionare, scegliere, preferire, che non significa escludere, ma mettere in ordine, ne riparleremo.
La democrazia ha consentito che la banalità colonizzasse la terra, attraverso le sue pericolosissime armi, e cioè la televisione, la stampa e i social.
O esiste una forma sana di democrazia o è meglio altro. Non conosco la categoria del meno peggio, questa la lascio ai cosiddetti democratici, riformatori, progressisti. Ma continuerò a credere nel miracolo, pensiero che mi appaga molto più del progresso della tecnica, che, finora, ha cancellato quel poco di buono che c’era, invertendo ogni ordine naturale.
Ecco, chiudo la porta alle opinioni senza pensiero, agli spot pubblicitari e ai desideri indotti. Vorrei vivere per un po’ in pace. Me lo riesce a consentire questa democrazia, o neanche questo?
L’avvocato, il PM, il rinvio del processo e l’indignazione di massa.
Posted on 02. apr, 2022 by L.P. in Argomenti

Un PM d’assalto non crede alla malattia di un avvocato e ci indaga su con spiegamento di forze e l’urgenza che il caso merita, mentre quello della porta accanto tarda a delegare le indagini su una denuncia di un cittadino, tanto da renderle impossibili.
La differenza, se stesse solo nella qualità di uno degli indagati, e cioè perché in un caso c’è di mezzo un avvocato, sarebbe eclatante e significativa di una giustizia che definire allo sbando sarebbe un eufemismo neanche meritato.
A ogni modo, l’accaduto provoca una apparente indignazione generale dell’avvocatura tutta: interrogazioni parlamentari, assemblee, comunicati stampa, prese di posizione, sguardi torvi e sprezzo del pericolo.
L’episodio, peraltro, ricorda a una distratta Avvocatura che tante cose non funzionano, suggerisce una riflessione sul ruolo marginale ormai assunto dalla difesa, sullo sbilanciamento del processo a favore dell’accusa, ma soprattutto sulla perdita di autorevolezza della figura dell’avvocato nel contesto giuridico e sociale italiano.
Ma gli avvocati non desistono dal farsi male da soli: non mancano, infatti, di autoassolversi sul piano personale, tutti, salvo autocondannarsi come categoria, continuando nel perverso gioco di evitare un serio esame di coscienza.
Una volta, non molti decenni orsono, gli avvocati guadagnavano bene, erano rispettati, avevano una certa autorevolezza all’interno del processo, facevano dottrina, scrivevano manuali irripetibili, indirizzavano la giurisprudenza. Poi, a un certo punto, hanno tirato il freno a mano, cedendo il passo. Prima gli avvocati facevano i ministri, i sindaci, ora in questi ruoli vengono chiamati i magistrati, che, nel contempo, scrivono i manuali, riuscendo nella difficile opera di fare sia la dottrina che la giurisprudenza, oltre alle leggi, che, in riferimento ai processi, hanno ormai come unico obiettivo quello di deflazionarne il numero e disincentivare il ricorso alla giustizia, quasi che denegandola un popolo diventi più civile.
Gli avvocati hanno solo saputo aumentare in modo spropositato e ingiustificato il loro numero, abbassando la qualità media del prodotto professionale, spartendosi sempre più difficilmente il bottino degli incarichi secondo le leggi della foresta.
Abili a puntare il dito verso le disfunzioni, ma solo se non visti, succubi del primo magistrato che si trovano di fronte, con una riverenza che disvela un evidente complesso di inferiorità, imposto dalla dilagante approssimazione nello svolgere la professione, non si sono più posti l’ambizione di essere scienziati del diritto, preferendo il ruolo di manovali.
Il magistrato ha, invece, con gli anni, acquisito la consapevolezza di un potere illimitato, si è impadronito delle leve della giustizia e l’ha diretta dove voleva, con uno spirito di categoria rimarchevole, inclinato solo dalle beghe interne, abilmente mai riconosciute come tali al di fuori.
Prima invidiava i guadagni dell’avvocato, ora lo guarda dall’alto in basso, forte di uno stipendio robusto e di liquidazioni da capogiro. Tratta il processo come un ingombro, gli avvocati come inutili orpelli e ha assunto la sufficienza di comportamenti giusta per porsi a un livello superiore a quello delle umane vicende, con l’indifferenza giusta per non avvertire scrupoli di coscienza nel rinviare sine die processi su processi, e questo almeno in alcune realtà giudiziarie.
Il quadretto è indecente, e mi riferisco al quadretto che offre di se stessa la giustizia, con un’avvocatura allo sbando e una magistratura onnipotente e distratta dagli onori della cronaca, oltre che dall’esercizio del potere.
La giustizia, poi, costa tanto, ma tanto, senza rendere un servizio adeguato e proporzionato alla spesa, e questo è sotto gli occhi di tutti.
L’icona della toga quale baluardo di libertà e difesa dei diritti, fa sorridere, ormai; la messa in scena del processo è da avanspettacolo. Basterebbe assistere a una qualsiasi udienza, che sia civile o penale, per rimanere stupefatti di quanto essa sia, appunto, una messa in scena: udienze chiamate solo per essere rinviate, magistrati che vengono incaricati di un processo in sostituzione di altri nel bel mezzo dello stesso e anche più volte, udienze disumane dove a regnare è l’attesa e la perdita di tempo, sette o otto ore di udienza per sfornare pochissime sentenze; senza pensare ai tempi occorrenti anche soltanto per la firma di un decreto ingiuntivo o a quei decreti che impongono di far celebrare quantomeno il decimo compleanno a un fascicolo prima che sia deciso.
E, in tutto questo, un PM dubita della malattia dell’avvocato, e gli avvocati, in riunione permanente, si ricordano di come sono caduti in basso, provano a svegliarsi, ma non realizzano che il loro andare avanti è come quello dei sonnambuli.
Ho visto cittadini avere ragione dopo vent’anni e aver vissuto una vita diversa proprio a causa dell’ingiustizia subita e dei tempi per accertarla. Ho visto tanto in quarant’anni di professione da non credere più nell’indignazione di massa che convive con l’autoassoluzione personale.
Le messe in scena non servono più.
Che si celebri, piuttosto, il funerale della giustizia con la speranza che ne rinasca una migliore.
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